Quello a cui stiamo assistendo in questi giorni è probabilmente il più grande esperimento di lavoro a distanza mai attuato nel nostro paese.
8,2 milioni è il numero di lavoratori dipendenti che non svolgono lavori manuali (e per questo possono lavorare a distanza): lo smart working è entrato prepotentemente nel mondo aziendale e nella vita di buona parte di loro.
Alcune aziende sono state in grado di adeguarsi in tempi rapidi, altre invece hanno dovuto fermarsi perché non sono riuscite nell’intento per limitazioni sia tecnologiche che culturali, altre ancora stanno dimenandosi tra una soluzione “artigianale” e un salto in ufficio.
Ma è innegabile che il lavoro agile è diventato una realtà con cui convivere: come trasformarla in opportunità per il futuro?
Indice degli argomenti:
- Smart working, lavoro agile, telelavoro e remote working: le differenze
- Tu, sei pronto? L’euristica della disponibilità
- Gli strumenti must have dell’azienda smart
Smart working, lavoro agile, telelavoro e remote working: le differenze
Partiamo dalle differenze: quelle tra smart working e lavoro agile da un lato, e tra telelavoro e remote working dall’altro sono davvero sottili, quindi utilizzeremo per semplicità i soli termini smart working e telelavoro. La differenza tra questi due modelli è più sostanziale, quindi è utile tracciare una linea di confine: quando si parla di telelavoro e quando invece di smart working?
Il telelavoro si riferisce alla “semplice” pratica di lavorare da remoto in qualunque luogo che non sia l’ufficio. I freelance sono per definizione coloro che fanno del telelavoro il loro principale modo di condurre l’attività lavorativa.
Quando parliamo di smart working, invece, diventa più difficile confinare il concetto ad una definizione, in quanto si tratta più che altro di un modello che coinvolge in larga misura la cultura aziendale. Possiamo considerarlo come “un approccio all’organizzazione del lavoro in grado di determinare efficacia ed efficienza nel raggiungimento degli obiettivi di business mediante una combinazione di flessibilità, autonomia e collaborazione, parallelamente all’ottimizzazione degli strumenti e degli ambienti di lavoro per i collaboratori” (fonte: CIPD, 2008).
Il telelavoro nasce quindi dall’esigenza di garantire la “continuità” dell’attività da parte del lavoratore, mentre lo smart working agisce più in profondità tirando in ballo oltre che l’accessibilità agli asset tecnologici e informativi dell’azienda anche la cultura aziendale, la produttvità, le aspirazioni e in ultimo la soddisfazione personale dello smart worker.
Di conseguenza, mettere il lavoratore nelle condizioni di lavorare 2 settimane da casa, pur con tutte le facilitazioni tecnologiche del caso, non è smart working ma semplicemente telelavoro.
Nessuno pensava di dover stravolgere in una manciata di giorni il proprio modello di lavoro unico forgiato in anni di attività. Ogni azienda ha le proprie procedure, create a loro volta dai manager e dalle abitudini dei collaboratori che partecipano alla vita dell’azienda. Queste abitudini si radicano saldamente nella cultura aziendale, con il rischio di diventare il più grande ostacolo al miglioramento dell’intero ecosistema.
Del resto, l’impreparazione di molte aziende all’emergenza è stata nientemeno che la conseguenza di quello che Richard Thaler, premio Nobel per l’economia 2017, ha chiamato euristica della disponibilità. Si tratta di un atteggiamento secondo cui “gli esseri umani tendono a valutare la probabilità dei rischi a seconda della facilità con cui riescono a pensare ad un evento pertinente”. Parafrasando, dal punto di vista dell’implementazione dello smart working, l’Italia e le aziende italiane non si sono fatte trovare pronte in parte perché non vedevano attorno a sé alcuna ragione per farlo.
Gli ostacoli allo smart working e come rimuoverli
L’Italia non eccelle in quanto a numeri di lavoratori e aziende che sfruttano i benefici dello smart working. Due sono le barriere che le aziende in genere incontrano nell’adottare questo approccio: barriere culturali e barriere tecnologiche.
In breve, siamo un paese poco “connesso”: a fine 2019 occupavamo la terzultima posizione nella classifica Ue dell’economia digitale.
Ma cosa ci ostacola esattmente? Cosa ci impedisce di cogliere tutti i benefici dello smart working?
Due sono i fattori “colpevoli”: il fattore culturale e quello tecnologico, dove uno determina l’altro.
A discapito di quanto si potrebbe pensare, è l’aspetto culturale a determinare l’arretratezza tecnologica e non il contrario: oggi il progresso tecnologico mette a nostra disposizione più di quello di cui abbiamo bisogno per cominciare a lavorare in manera smart. E allora perché la maggior parte delle aziende italiane non riesce a farlo?
Qui subentra l’arretratezza culturale: un atteggiamento che ci impedisce di abbracciare il cambiamento, superando gli svantaggi che ne derivano. Qui ne abbiamo elencati tre, osservati dal punto di vista del manager/titolare più restio:
- «Se non ci sei, non ti posso controllare»: tanti manager e titolari vogliono avere il controllo sulla produttività dei propri collaboratori, e vogliono averlo face-to-face; da questo primo aspetto deriva il secondo;
- «Più ti vedo lavorare, più mi piaci»: il criterio di misurazione delle performance dei collaboratori in azienda è in buona parte dei casi la “presenza in ufficio” e non – come sarebbe più auspicabile – il raggiungimento dell’obiettivo in un dato arco temporale;
- «Se non sei in ufficio, non stai lavorando»: per qualche arcano motivo, il lavoro effettuato da un luogo che non sia l’ufficio è ritenuto come di minor valore, tanto dai titolari/manager quanto dagli stessi dipendenti.
Alla base di questo atteggiamento di chiusura vi è principalmente una scarsità di fiducia da parte dei manager nei confronti dei collaboratori; una mancanza che nemmeno il più grande investimento in tecnologia può colmare, a prescindere dalla tipologia e dalla dimensione dell’azienda coinvolta. Come superare questo limite?
Ernest Hemingway a suo tempo ci ha lasciato un consiglio che calza alla perfezione: “Il miglior modo per scoprire se puoi fidarti di qualcuno, è fidarti”.
Instaurati un clima di fiducia e collaborazione, una cultura che favorisca la libera espressione e l’intraprendenza dei collaboratori, un sistema di valutazione delle performance che premi il raggiungimento degli obiettivi e non il tempo passato a lavorare, l’azienda è pronta per fare il passo successivo: dotarsi della tecnologia necessaria.
Gli strumenti must-have dell’azienda smart
La prima cosa che dovrebbe fare un’azienda dopo essersi predisposta in maniera positiva al cambiamento, è dotarsi della giusta infrastruttura. Un’operazione che, se messa a confronto con il cambio di mentalità di cui abbiamo appena parlato, diventa davvero di poco conto.
In quanto titolare o manager di un’azienda, ecco qui alcune domande da porti per valutare il grado di apertura della tua azienda al modello di smart working:
- È garantito l’accesso alla tecnologia necessaria da parte dei dipendenti?
- I collaboratori hanno un laptop o un PC?
- Se lo hanno, è garantito facile accesso alle risorse aziendali (e-mail, documentazione, software, account online etc.)?
- Sono dotati dei software necessari per effettuare chiamate e conferenze, proprio come se fossero in ufficio?
In un contesto simile, in cui è molto probabile che si verifichino disparità, è necessario per l’azienda fare in modo di garantire un equo accesso alle risorse ad ogni collaboratore.
Volendo procedere anche ad una check-list dell’attrezzatura indispensabile per potersi parlare di smart working, ecco gli strumenti che non possono mancare:
- Un PC;
- Una connessione a internet sicura (ad esempio una VPN – Virtual Private Network) che ti consenta di collegarti con l’infrastruttura informatica aziendale e avere accesso ai dati in totale privacy, anonimato e sicurezza.
- Strumenti per l’accesso a tali dati, perché questi cambiano da azienda ad azienda e per tipologia di lavoro: per intenderci, i dati generati in uno studio legale necessiteranno di strumenti diversi da quelli generati da uno studio di progettazione architetturale, e con tutta probabilità verranno consultati con strumenti software differenti.
- Servizio assistenza remota per risolvere problematiche di qualsiasi natura nel caso si presntino. In AESSE, ad esempio, forniamo l’help desk Qui&Ora.
Come vedi dalle limitate risorse che occorrono al lavoratore, la barriera all’evoluzione tecnologica di un’azienda non è la tecnologia, ma l’azienda stessa.
Alcuni consigli per essere più Smart-oriented al tempo del Covid
Nonostante tutti gli accorgimenti tecnologici, può capitare che si incontrino delle difficoltà nell’abituarsi al nuovo modo di lavorare: ecco quindi tre consigli presi in prestito da un recente articolo di Harvard Business Review, per aiutare manager e collaboratori nell’intento, in un periodo di cambiamenti repentini.
- Rituali: è importante crearsi dei propri rituali ed avere disciplina nell’impostare la giornata di lavoro. L’atto stesso di fare una doccia e vestirsi nonostante si debba stare in casa è un’ottimo modo per cominciare la giornata lavorativa.
- Riunioni: Per tutti coloro che sono abituati a stare sempre in contatto e a lavorare in un ambiente in cui si sta insieme, “isolarsi” potrebbe non essere un toccasana. Di conseguenza, le riunioni dovrebbero avere cadenza per lo meno settimanale. Non sono da escludere coffee-breaks, pranzi e pause in diretta “video”. Questi piccoli momenti aiutano a mantenere il team “connesso” allo stesso modo in cui lo è in ufficio.
- Disponibilità dei manager: È importante che i manager si assicurino che nessun membro del team senta di avere minori possibilità di dialogo con loro rispetto agli altri. Si sa, quando si è da soli la mente comincia a vagare. Pertanto, è bene garantire identica disponibilità a tutti e far sentire ciascun componente ascoltato e considerato.